martedì 9 agosto 2011

Nove agosto duemilatre


Otto anni fa io caddi in un sonno strano. Mi venne addosso uno stronzo ubriaco e quando mi svegliai ero inchiodato all’asfalto. Potevo mettere a fuoco solo il centro del campo visivo, ma restava fermo su un punto qualunque del cielo azzurrissimo, spazzato da nuvoloni bianchi che viaggiavano veloci. In bocca un impasto di sangue rappreso che con la saliva cementava tutto fino al naso e respiravo piano e pensavo che ogni atto respiratorio sarebbe stato l’ultimo.
Sentivo la vita fuggire e in testa martellava ciclica una specie di tabellina del tre, che andava verso l’infinito. Le voci erano poche, farneticanti, confuse, facevano solo da contorno. Tra queste una …
LorenzoLorenzoLorenzoLorenzoLorenzoLorenzoLorenzoLorenzoLorenzoLorenzo…
Era Raffaella.
Io sentivo, ma non potevo rispondere. O non volevo. Perché io ero in una specie di sonno e di quel sonno non vorrei parlare. Vorrei evitare di farlo, di spiegare di come tornai alla luce, di come quell’inzuccata cambiò il mio corpo, la mia mente e la mia vita.
Vorrei ma alla fine non ce la faccio e scrivo.
Io lo sento ogni giorno che le mie spalle, il mio petto, le mie braccia e le mie ginocchia non sono più quelle che avevo prima delle diciassette e quindici del nove agosto duemilatre.
La botta di quel pomeriggio mi fece male, mi scaraventò lontano.
Tanto male, tanto lontano.
Ci fu un lunghissimo istante tra il buio e la luce, tra il sogno e il risveglio, tra il prima e il dopo. Istante nel quale io mi trovai a camminare sulla strada che dalla casa porta al mare, proprio dopo la galleria del sottopasso ferroviario, a Quercianella.
Era da lì sotto che da bambino passavo al buio con un po’ d’inquietudine (che in verità ancora oggi si ripropone, come l’aglio nel cuore della notte) e guardavo terrorizzato la volta in mattoncini piena di anfratti dove, dicevano, dormivano i pipistrelli.
Affrettavo il passo, ma in silenzio, trattenendo il respiro, per non svegliarli.
E poi quando arrivavo alla luce sentivo d’un tratto il rumore delle onde che si infrangevano sui sassi del porticciolo e ne vedevo la schiuma. Se c’era maestrale chiudevo gli occhi e sentivo gli spruzzi che punzecchiavano la faccia e asciugavano subito, lasciando piccoli aloni di sale sull’abbronzatura.
Ecco, ero lì, camminavo tra il nonno e la nonna.
È un ricordo sbiadito che sopravvive alla ruggine del tempo grazie a una sensazione che lo ha sempre accompagnato e che non è di disagio, come quel disagio che invece sento ogni mattina quando mi concentro sui calli ossei delle clavicole spezzate che non mi vennero ricomposte perché a tirarmi indietro i polmoni si riempivano di sangue. Parlo di una sensazione malinconica di addio a una vita che mi lasciava, che non mi sarebbe più appartenuta e che, forse (ma non ne sono sicuro) non vorrei nemmeno indietro.
Ecco.
Ma da allora, dal 9 agosto 2003, il cammino mi sembra sempre più difficile di com’era prima. A volte inutile, affannoso, complicato, farraginoso. Ogni atto pare condizionato, ogni volta che sfioro la felicità tutto passa così alla svelta che non riesco a capire, apprezzare, godere.
Come le folate di vento caldo, in pieno inverno. Quando le senti arrivare chiudi gli occhi e ti fai accarezzare dal tepore, ma quando cominci a sentirlo è già finito e torna il freddo.
A volte gli amici mi sembrano nemici, mi disgustano le compagnie e l’unico momento di vera serenità è quello su un crinale. O quando scrivo.
Quanto sudore per arrivarci, per rappresentare un pensiero, ma che sensazione vedere il mondo da lassù. Tutto il dolore accumulato, il peso che grava sulla mia testona vuota, si solleva come per incanto. Sparito, andato, volatilizzato.
Sospeso in aria come quell’aliante che stava immobile sopra di me sul crinale e che non avrei mai potuto vedere se non fosse stato per lo scricchiolio del timone.
Poi vedo un campo di papaveri, questa primavera, che svolazzano al vento. Tolgo il piede dal pedale e mi fermo, trattenendo il fiato per non inquinare l’attimo. O per non disturbarli. Si piegano e il loro piegarsi pare quello delle alghe, spinte tutte insieme dalla corrente, prima in un verso e poi nell’altro.
Ecco vorrei tornare alla primavera, rivedere quei papaveri e sdraiarmici vicino, magari senza romper loro gli steli, o i coglioni.
Piegarsi al destino, o al vento, a volte non ti fa spezzare, ma il dolore che senti dentro è ugualmente forte. È per questo che al piegarmi preferisco piegare.
Se poi cado, mi spezzo, ma almeno faccio tutto da solo…

Copyright © Lorenzo Borselli tutti i diritti riservati

13 commenti:

  1. attimi così, profondamente intimi, vanno solo ascoltati.
    di tutto quanto scritto restano tante emozioni e l'immagine dei papaveri, così capaci di stupire di colore e leggerezza da sempre, così maestri del cogliere la vita anche solo per qualche giorno, emozionati e apparentemente fragili..
    ciao lore, piega e fluisci..
    barbara

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  2. Caro Lorenzo, hai un talento per la scrittura continua così. E' un pezzo bellissimo. Fai in modo di usarne un po' del tuo talento per "sedurre" (portare a se) quelli che non sono consapevoli che con comportamenti sbagliati sulla strada si rovinano vite, famiglie, amici, emozioni, ricordi...
    Con tanta stima, Stefano

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  3. Rallenta, cammina piano, solo allora riuscirai a capire, apprezzare, godere.TVB
    Gabriella

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  4. non sò quante volte ho scritto qualcosa e poi le ho cancellate, forse per non essere frainteso? o solo x non essere poi ripreso nel mio "italianogrezzo"?
    mi ripeterò anche stavolta, bel pezzo, ..di scrittura!!
    Carlo.!!

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  5. Grazie Carlo. Io ti sfotto sempre ma ti voglio bene!

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  6. non commento spesso e quando lo faccio magari non funziona il blog. Se stavolta visualizzi il mio messaggio, ti dico : "pezzo molto profondo e toccante, roba grossa hai vissuto, niente è inutile, FORZA Lorenzo!"
    A presto, Tommy.

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  7. Leggerti è come viverti. Hai un dono straordinario Lorenzo, quello di fare 
    prendere vita alle parole. Ed io ti ho visto lì, steso inerme sull'asfalto 
    con  la morte innanzi a te, la senti, la respiri, l'avvicini, ti stai quasi per 
    concedere a lei  come se dovessi cedere alla seduzione di un'incantevole donna e poi ti riprendi e la rifuggi con la consapevolezza o la speranza che la vita che ti è stata donata e che meriti sia troppo importante per abbandonarla così 
    presto. E leggo del dolce abbandono ai ricordi dell'infanzia, lontani nel 
    tempo, ma indelebili per il cuore.  Ed infine respiro insieme a te l'afrodisiaco odore della primavera ammirando l'esplosione dei colori dei tuoi papaveri e della vita...Ieri, nel giorno del tuo onomastico, ti avevo chiesto di guardare il cielo stellato e dedicarmi una stella cadente...il desiderio non si dovrebbe rivelare ma io te lo confesso ugualmente: continuare a leggerti per viverti!
    Una tua Amica

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  8. La strada è quella giusta, vecchio: continua a rallentare.
    Hai corso forte in questi anni e ora è il momento di scalare la marcia.

    La vera meta, lo sai, non è l'arrivo quanto piuttosto il viaggio in sè.

    E io ti auguro di tornare a godertelo.

    Mirco

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  9. Ciao favaccia, ho letto adesso il tuo pensiero. Come al solito mi fai riflettere e venire i brividi, anzi da bambino anche io sono stato al mare a Quercianella (ci saremo già incontrati nell'altra vita?) ed il mare chevsi frangeva sugli scogli mi metteva paura... Oggi provo a surfarle le onde, col mio balocco e gli altri dell'equipaggio mi confessano pure di avere paura. Magari scuffio, raddrizzo la barca e poi via, di nuovo a perdifiato. Un abbraccio!
    Capra

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  10. L'importante è che si aggiusta sempre... Vai Gas!

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  11. Grande storia, tante emozioni.. sei sulla strada giusta... non smettere di raccontarti....fai crescere anche ognuno di noi che riesce a leggerti anche tra le righe...
    Un abbraccio al cuore
    Sabrina

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  12. son capitata qui per caso e ti ho letto e son senza parole perchè sento quello che hai scritto con parole stupende, hai un dono speciale usalo affinchè tu possa toccare in quei cuori che non riescono a connettersi alla forza della vita, alle cose semplici, al fidarsi del prossimo e a non avere paura nell'amare, a chi non si sente speciale e non comprende che ognuno di noi è unico e non ci crede. Usa la forza delle tue parole e stai certo che tornerò a trovarti.Antonella P.

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