martedì 23 maggio 2017

Quando parlai a Nicky...

"Sono padrone del mio destino, ma solo  il destino conosce la fine del mio cammino"
Andrea Dovizioso, in memoria di Marco Simoncelli


Stavo morendo sotto il sole mugellano di maggio, quello che in Toscana può far male anche se l’estate vera non è ancora arrivata. La puzza dei gas di scarico delle migliaia di macchine incolonnate stonava i polmoni, in aperto contrasto con l’azzurro turchese del cielo della spianata di Scarperia, al bivio di Bosco ai Frati.
Me ne stavo lì, col casco in testa, la paletta nel centauro e il casco con la calata aperta, a bollire, in uno scampolo di asfalto libero. Come al solito, l’unica gara di MotoGP che mi perdevo allora era proprio quella di casa, al Mugello: avevano detto che Rossi era arrivato terzo e che Jorge Lorenzo aveva beffato anche Iannone. Probabilmente stavano facendo la premiazione, ma il deflusso era già cominciato, perché chi va a vedere il motomondiale a Scarperia sa bene che per uscire dal Mugello servono ore.
Per me, già in sella alla moto della Polizia Stradale dalle sei del mattino, la giornata sarebbe stata ancora lunga e da un momento all’altro, lo sapevo, me lo sentivo, avrei dovuto cominciare a correre su e giù per quell’immenso groviglio di auto e di umani, per scortare qualche ambulanza, qualche personalità, per recuperare qualche ubriaco o per cercare di distribuire, sulla rete di stradine, almeno un po’ di quella gente delusa dall’inno spagnolo che aveva fatto garrire d’orgoglio la Rojigualda iberica sul podio della classe regina.
Ecco. Pensavo a quanto ero stato scemo a mettermi in lista ed ecco che da una Fiesta Grigia incolonnata, vidi sbucare una mano.
Che fa il poliziotto quando qualcuno lo chiama? Ci va e spera di essergli utile, pronto a sentirsi dire che il traffico è colpa sua, che la gente guida come gli pare e che è anche colpa sua, che il Mugello non è fatto per assorbire tutta quella massa e lui dovrebbe fare qualcosa, oppure che piove e il governo è ladro.
Invece da sotto il cappellino con la tesa c’era Nicky, caduto al terzo giro disarcionato dalla sua Honda Aspar, che aveva già fratto i bagagli e che ora, con quella fiestina a noleggio, voleva solo arrivare alla Malpensa e tornarsene a casa.
Il suo americano gentile, perfetto, sembrava pronunciato per essere compreso dall’italiano medio.
Non mi sono mai fatto un selfie, coi personaggi famosi. Ho perso un po’ di quella spinta social che all’inizio mi aveva fatto toccare quota quattromila amici su Facebook, prima di cancellarmi e tornare all’anonimato di questo blogguccio.
Oggi, lo confesso, mi pento un po’ di aver rispettato la regola deontologica dello sbirro perfetto, lasciando che quella chiacchierata tra me e il campione, che in comune con il sottoscritto aveva solo la benzina in circolo nelle vene e l’amore viscerale per l’equilibrio delle due ruote, restasse una conversazione tra due persone normali.
La chiamo dignità e avrei rovinato tutto, chiedendogli una foto insieme.
Certo, gli feci capire che sapevo chi fosse. Lo chiamai per nome e gli spiegai che un modo per arrivare a Roncobilaccio, dalla frazione di San Giusto a Fortuna, c’era. Un po’ complicato, ma poteva farcela.
Saltai in sella, dissi a Gabriele che sarei tornato subito e mi feci seguire da Nicky per la stradina di Bosco ai Frati, fino a Galliano: da lì, doveva solo andare dritto, andare a destra al primo incrocio e a sinistra al secondo: Roncobilaccio e poi via, verso Milano.
Mi strinse la mano, o almeno così mi sembra di ricordare, e quando dissi a Gabriele che avevo parlato a Nicky Hayden, lui scrollò le spalle e sopra il suo testone buono si formò un fumetto con un gigantesco punto interrogativo dentro.
Niente: è rimasto tutto tra me e Nicky.
Come quel pomeriggio del 31 maggio 2015, saluto Kentucky Kid con la stessa frase.
Buon viaggio campione.

1 commento:

  1. ....avrei voluto essere con te in quel momento!
    Ciao Niky ....ci manchi già!

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