mercoledì 8 ottobre 2014

Transfăgărășan e Transalpina 2014 #6: Sarajevo, Mostar e poi via fino a casa...



“Come d' inverno cadono le foglie e i rami spogli non coprono ai cecchini la vista, cosi' cadono i piu' indifesi tra i vivi di Mostar: i malati di mente dell' ospedale vecchio e gli anziani dell' ospizio di Stararcki Dom. Cadono abbattuti, trafitti dai proiettili che li cercano dietro i vetri rotti, nelle stanze tonnare dell' ultima degenza. Benvenuti alla guerra di Mostar, antica pietra d'angolo della Erzegovina”
Erri De Luca, Il Corriere della Sera, 28 febbraio 1994



E' il 20 settembre, stamattina. E anche se il cielo è azzurrino, sappiamo che più avanti pioverà.
Tiro fuori la mukka dal fango del giardino di Petzo, che poche ore prima - nonostante la gentilezza nei nostri riguardi - aveva usato parole poco gentili (se così si può dire) per la Romania da cui arrivavamo e per la Bosnia verso cui andremo.
Si, perché oggi vogliamo andare fino a Sarajevo e per farlo dovremo fare moltissima strada. Con Angela abbiamo deciso che risaliremo il Danubio continuando il percorso della 25-1 fino a a Veliko Gradište, dove con Oscar e Ariela avevamo dovuto fare dietrofront per tornare a Ram ad imbarcarci sulla chiatta. Da lì prenderemo l'autostrada in direzione Belgrado e poi usciremo più o meno a Mali Požarevac, da dove andremo verso sud con strade secondarie e cercheremo di valicare il confine con la Bosnia-Erzegovina a Donje Vardište. Seguiremo le indicazioni per Višegrad e poi saremo praticamente arrivati.
Andiamo?

Donjii Milanovac, mattina...
Ops: se m'acchiappa Ammattatelli...
La moto è maschia, il pieno c'è, le gomme sono alla pressione giusta e anche l'Angela si è ripresa dalla notte di stenti. Via.

Lui è il Danubio e loro sono le Porte di Ferro
Risalire il Danubio di giorno è effettivamente un'altra cosa: qui siamo nel pieno del parco nazionale di Đerdap, nuovamente a sud dei Carpazi, cominciato a Kladovo e che prosegue nella nostra direzione fino alla fortezza di Golubac. Il traffico è ancora scarso e il cielo è nebbioso, ma il paesaggio è molto bello lo stesso. Colonne di militari e di mezzi di soccorso continuano a venirci incontro, andando verso Kladovo. La gola che il fiume ha scavato nei millenni è la Porta di Ferro. Percorrerla da un capo all'altro significa farsi un centinaio di chilometri e nel punto in cui le sponde sono più vicine, a Veliki Kazan, Romania e Serbia si guadano da 150 metri. Nei paraggi, a Gospođin vir, il letto del Danubio supera gli 80 metri di profondità.

La fortezza di Golubac
Ci entriamo in moto...
I bastioni vigilano sul fiume
Passiamo dall'altra parte
La fortezza è lì dal 1300, ma ci sono altre vestigia che riconducono al passato: abbozzi di porti, resti del ponte Traiano, la tabula Traiana scolpita nella roccia a picco sulle acque del gigantesco fiume. Stiamo percorrendo la strada sulla riva opposta dell'andata ed è un po' come navigare lungo costa: fa anche rabbia vedere luoghi così vicini e così gradevoli, senza però avere modo di poterci andare. Possibile che non ci siano servizi di trasporto? Possibile che non ci sia una chiatta su cui contare?
Lasciare il Danubio significa veder cambiare radicalmente il paesaggio e quando torniamo nelle campagne che avevo già visto qualche giorno prima, rivedo i negozietti, qualche faccia già notata dietro le casse di peperoni rossissimi, soprattutto quelli vicini all'autostrada, dove arriviamo un'oretta più tardi.

peperoni...
Per la colazione ci arrangiamo alla meglio a Posarevac: qui l'Angela battezza un forno e compra, coi pochissimi spiccioli rimasti, due mega croissant al cioccolato e siccome non ci sono bar, in questi paesi, nei quali ci si possa sedere a un tavolino e ordinare brioche e cappuccino, scegliamo una birreria poco più avanti dove ci accomodiamo nel dehor e ci pappiamo i viveri portati da casa, sorseggiando un espresso e acqua frizzante. Quello che segue è un saliscendi nel verde, scampando a un pazzo che con una Jetta del secolo scorso rischia di ammazzarci e sopravvivendo ai morsi della fame che, nonostante la colazione, cominciano a farsi sentire, così come le gocce d'acqua.

Prati.
Infatti, poco dopo Čačak (almeno credo), dopo aver costeggiato un bel laghetto, sono dolori. La pioggia arriva improvvisa e praticamente non ci lascia fino a qualche chilometro dopo il confine Bosniaco, che attraversiamo dove ci eravamo prefissati, a Donje Vardište. Restiamo sotto la pioggia battente, fermi in coda alla frontiera, per un'oretta ed eccoci a Višegrad.

Il bellissimo ponte di Višegrad

Avevo sentito parlare di Višegrad. Avevo un ronzio nel cervello da quando avevo visto il nome della città sulla mappa, che non prendeva forma: siamo andati subito in centro, in cerca di cibo, ma nessuno sembrava in grado di darci un panino o un sacchetto di patatine. Così, dopo esserci un po' asciugati, abbiamo messo le antipioggia a posto e ci siamo bevuti una birra prima di ripartire alla volta di Sarajevo.
Nemmeno una calamita... Uff...
Se il tempo ci avesse assistito un po', avrei placato il ronzio (quello in testa) leggendo sulla guida che la città in cui eravamo appena passati fu teatro di uno dei primi massacri etnici commessi sulla popolazione musulmana dalle forze serbe durante l'aggressione alla Bosnia ed Erzegovina  (clicca qui). Non che i croati abbiano poi fatto di meglio...
Il Ponte Mehmed Paša Sokolović, in realtà, ha un passato in cui la crudeltà dell'uomo si alterna alla sua capacità di dialogo: da un lato univa le due parti della città e le due religioni, dall'altra è stato testimone delle orribili persecuzioni che hanno visto l'una e l'altra parte, alternativamente, vittima e carnefice. Fino al secolo scorso, sul ponte venivano esibite le teste mozzate ed impalate dei contadini serbi, mentre durante il conflitto bosniaco del 1992-1995 vi furono giustiziati centinaia di musulmani bosniaci. Oggi, è patrimonio dell'Unesco, ma dalla propria stoltezza e cecità, proprio, l'umanità non vuole guarire (clicca qui).

Una ricostruzione dei massacri
Si cominciano a vedere i primi minareti, spesso accanto ai campanili delle chiese sempre più rare, ma ciò che sembra rappresentare elemento comune a tutte le costruzioni, sono i fori di proiettile sui muri delle case, alcune delle quali sventrate da esplosioni e lasciate lì, a memoria futura di un passato presente.
Cari amici, benvenuti in Bosnia.

Welcome in Bosnia and Herzegovina
E' impossibile, da questo momento in poi, evitare di fare i conti con la guerra che dal 1990 al 1995 ha insanguinato la Yugoslavia e il suo popolo. Fu (ma l'uso del passato remoto è improprio, visto che si tratta di un passato prossimo ) una guerra di tutti contro tutti, un conflitto civile fra i diversi popoli che fino a quel momento erano stati uniti nelle repubbliche socialiste: Croazia, Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Montenegro, Slovenia più le province serbe del Kosovo e di Voivodina
Tutte queste province erano - e sono tuttora - molto diverse tra loro per religione, pensiero, cultura e livello economico e quando qualcuna di queste difformità provocava tensioni, la mano dura di Josip Broz, il maresciallo Tito, si abbatteva su di loro. Dopo la sua morte, l'incapacità dei successori portò il paese alla crisi economica e quando un popolo ha fame, i vecchi rancori riemergono: Croazia e Slovenia, più ricche rispetto alle consorelle, volevano l'indipendenza, gli albanesi del Kosovo tornarono ad alzare la testa contro i nemici di sempre, i Serbi, cui erano di fatto sottomessi e al momento in cui la Slovenia proclamò la sua indipendenza, il 25 giugno 1990, tutto iniziò a precipitare: l'esercito popolare, fortemente serbo, attaccò la Slovenia e solo la Nato riuscì a stringere una tregua, al termine della quale il governo jugoslavo accettò la secessione di Ljubljana.
Quindi toccò alla Croazia, che dopo aver annunciato la propria indipendenza subì a sua volta l'attacco di Belgrado: ancora morti e bombe ma anche in questo caso, con la pressione dall'estero, Zagabria poté divenire la capitale di un nuovo stato libero.
L'8 novembre 1991 la Macedonia dichiarò la propria sovranità, sancendo così che la galassia balcanica che Tito aveva unito, stava andando in pezzi.
La vera polveriera slava ha dato il peggio di sé quando anche all'interno della Serbia (e dunque in Bosnia) iniziarono a volersi separare tra loro i gruppi serbi, quelli musulmani e quelli croati. Le conseguenze di quella follia sono lì, davanti ai nostri occhi, appena entrati in territorio bosniaco. Ricordo che mentre noi ci preparavamo ai mondiali di Francia '94, a poche centinaia di chilometri dal nostro paese imperversava una guerra così violenta, con uccisioni di civili, stupri ed esecuzioni di massa e assedi medievali. Sarajevo, dove stiamo arrivando, è rimasta sotto assedio e sotto il tiro dei cecchini dal l 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 (10mila morti e 60mila feriti).
Ma vi rendete conto? E noi ci siamo dimenticati di tutto questo?

Sarajevo
La città rimase isolata, bombardata a ritmo serrato (nella strage del mercato morirono 68 persone) e decimata a colpi di carabina, difesa strenuamente da chi era sfuggito alla pulizia etnica messa in atto dai serbi. C'erano i caschi blu, ma nessuno sembrava essere in grado di spezzare la volontà omicida di Milosevic e dei suoi sgherri, fino a quando, a Sebrenica, i serbi uccisero oltre 8mila bosniaci musulmani: solo allora cominciarono i bombardamenti e solo allora si arrivò alla fine delle ostilità.
Le vittime del conflitto sono state stimate in quasi 100.000, di cui circa 40.000 civili.
A Sarajevo, dove la gente sopravvisse solo di coraggio, si poteva tornare a camminare senza correre e senza restare uccisi.


Queste cose le scrivo soprattutto per me, state tranquilli. Non voglio fare lezioni a nessuno: voglio solo ricordarmi che se possiamo viaggiare come turisti in un luogo dove ancora le tensioni sono altissime, lo dobbiamo a tutti quelli che sono morti e che hanno reso evidente la follia anche a quelli più distratti tra noi.
Per cui torno subito alla strada che da Višegrad porta a Sarajevo, la n. 5: costeggiamo la Drina e scopriamo  che oltre ad essere un fiume bellissimo, è anche molto sporco. Non capiamo se si tratti di un problema temporaneo, magari provocato dalle piogge torrenziali che ci hanno preceduto (e che ci accompagnano, in verità), o se, invece, sia una questione cronica...

Le bellissime anse della Drina
ecco: vedete questi punti bianchi?
E' sporcizia. Tantissima.
Non sappiamo se arricciare il naso: certamente,  andando più avanti vediamo che forse i problemi col passato sono ancora troppo presenti. Insomma, col tempo, quando le ferite ancora ben visibili sulle facciate e nei giardini delle case saranno rimarginate, forse si penserà anche a questo...

... senza parole ...
Arriviamo a Sarajevo sul tardi, ancora zuppi di pioggia, e il navigatore ci conduce rapidamente all'albergo che abbiamo prenotato su booking, grazie alla moltitudine di wifi aperte su cui, dalla Croazia a qui, abbiamo potuto contare.
Sembra che a rendere possibile tutto questo sia stata l'Europa coi suoi finanziamenti: quelli arrivati in Italia, sembra, sarebbero stati usati per il digitale terrestre. Possibile?
Il nostro hotel è il  Villa Melody, graziosissimo, lussuoso e molto pulito, che ha offerto riparo a noi e alla mukka. Siamo a nemmeno cento metri dalla Bascarsija,  il mercato di Sarajevo che rappresenta la zona più turistica della capitale bosniaca.
Nel fazzoletto di terra che costeggia la riva destra del Miljacka, il fiume della città, sembra di passeggiare nelle strade di Gerusalemme: in pochissimo spazio ci sono moschee, in particolare quella che porta il nome di  Gazi-Husrev Beg, una cattedrale cristiana, una chiesa ortodossa e una sinagoga. Ci facciamo due passi lungo il corso della Bascarsija e arriviamo fino al Centar, che oltre ad essere il centro economico è anche il nome della municipalità cui appartiene. Ci rilassiamo passando, nella zona universitaria, vicino a un pub dove un gruppo si esibisce dal vivo. Proprio davanti, una teca di vetro protegge alcuni fori di calibro 50 che devono aver devastato l'interno del palazzo.
Poi, affamati, ci sediamo in un ristorantino del mercato, dove mangiamo un ottimo filetto (io) e una zuppa di cipolle (lei)... :-))))
Incredibile: dopo una lite violenta tra il padrone e uno dei camerieri, Angela riesce a ordinare e poi, zittizitti, che ne torniamo a nanna, sperando che le tute e i guanti si siano nel frattempo asciugate.
Passeggiare nella Bascarsija, significa trovarsi teletrasportati in Turchia e improvvisamente respiriamo un'atmosfera che definirei sospesa. Non dico magica, ma sospesa. Inspiri l'aria quando passia davanti alla fontana Sebilj, simbolo di Sarajevo (che di giorno non dice granché, ma di sera...) e la espiri solo quando te ne esci per andare al Centar.

La  fontana Sebilj
Il mercato è quasi tutto all'aperto e i negozietti, trappole per turisti intendiamoci, si susseguono l'uno dopo l'alro, anche nel reticolo delle stradine lastricate di ciottoli. Solo nel  vicolo Kazandžiluk, quello dei calderai, si respira un'aria antica che porrebbe essere quella d'un tempo.

Lo struscio...

Allah e Dio si guardano

la Biblioteca Nazionale, ricostruita dopo l'attacco del 25 agosto 1992, quando i serbi la colpirono con bombe incendiarie provocando la distruzione di quasi tutto il suo immenso patrimonio
Questo è il Ponte Latino, dove il 28 giugno 1914  Gavrilo Princip sparò, uccidendolo insieme alla moglie,  all'erede al trono di Austria e Ungheria  Francesco Ferdinando d'Asburgo-Este. L'episodio costituì il casus belli della prima guerra mondiale.
Il ponte Vrbanja, oggi si chiama Diliberović-Sučić
Tagliando in perpendicolare arriviamo al ponte Vrbanja, che oggi si chiama Diliberović-Sučić, in onore della studentessa Suada Diliberović (considerata la prima vittima dell'assedio di Sarajevo) e della pacifista Olga Sučić.  Suada Diliberović era di origine bosgnacca mentre Olga Sučić era croata. Entrambe vennero uccise il 5 aprile 1992 da un cecchino che agì dalle zone controllate dai serbi sul ponte all'inizio dell'Assedio di Sarajevo. In un primo momento il ponte venne nominato "Most Suade Dilberović" (Ponte Suada Dilberović), per essere successivamente rinominato come "Most Suade i Olge" (Ponte Suada e Olga).
Sul ponte c'è una targa commemorativa in ricordo di queste due ragazze che recita "Kap moje krvi poteče i Bosna ne presuši", una goccia del mio sangue scorre e la Bosnia non diventerà arida.
Il 3 ottobre 1993 anche un italiano venne ammazzato dai cecchini serbi sul Vrbanja: si chiamava Moreno Locatelli ed era un volontario pacifista arrivato nella capitale bosniaca sotto assedio, per aiutare anziani, persone sole e bambini. La giornata in suo ricordo è stata celebrata l'anno scorso a Sarajevo, quando gli è stata intitolata una strada.

Suada Diliberović e Olga Sučić. Su internet si trova solo una foto sbiaditissima di Suada. Pazzesco.
Siamo ormai al 21 settembre. Al mattino, quando rifacciamo il percorso della sera prima, riusciamo a vedere qualcosa di più grazie al sole che splende sulla città. Riflettiamo: sono passati esattamente 100 anni da quando l'anarchico Princip sparò a Francesco Ferdinando. 100 anni sono tanti e non sono niente: nel secolo scorso, di certo, la ex Jugoslavia ha conosciuto almeno tre violentissime guerre, cui se ne sono aggiunte altre di portata minore ma che hanno comunque fatto un gran numero di vittime. Stavolta il terzo millennio ci sembra cominciato meglio, almeno qui, anche se non abbiamo potuto fare a meno di incrociare sguardi per niente amichevoli quando spiegavamo che stavamo facendo un giro che ci aveva portato in Slovenia, in Croazia, poi in Serbia, in Romania e infine qui, in Bosnia ed Ersegovina. E la cosa forte è che solo in Bosnia e in Romania abbiamo fortemente avvertito un senso di vera umanità nei confronti dello straniero.
Speriamo che le pallottole abbiamo sortito almeno questo effetto perché altrimenti c'è da impazzire.

Moschee lungo la linea della Miljacka
Terrazze prese di mira

In cima a Ulica Ferhadija

Vječna Vatra, la Fiamma Eterna che ricorda la liberazione della città dai nazisti nel 1945.
Lasciamo Bascarsija e proseguiamo verso il Centar, percorrendo la ulica Sarači,antico luogo di ritrovo dei conciatori di pelli: vediamo la Moschea Gazi-Husrevbey (che le guide dicono essere  l'esempio più rappresentativo dell'architettura ottomana di tutti i Balcani). Passiamo davanti alla  Kuršumlija Medresa, la Scuola superiore islamica, piena di cupole, cupolone e cupolette, la Torre dell'orologio che, sembra essere in perfetta armonia con il minareto, e poi imbocchiamo dopo la  cattedrale cattolica, l'ulica Ferhadija, su cui si affacciano palazzi dallo stile architettonico tipicamente asburgico. A fianco della cattedrale, visitiamo la galleria.memoriale "11/07/95" che dal 12 luglio 2012 documenta il genocidio di Srebrenica. La definirei una tappa obbligata di una visita a Sarajevo.

La cattedrale
l'ulica Maršala Tita
Qui si trova un po’ di tutto e ad esser sinceri dell'oriente visto al mercato resta ben poco: il  Fuoco Eterno (Vječna Vatra) è incorniciato da un palazzo neorinascimentale. Dal 6 aprile 1945, giorno della liberazione di Sarajevo dal nazifascismo, è sempre rimasta accesa, ad eccezione di quando, durante l'assedio serbo, finì l'olio che l'alimenta. Durante l'inverno la fiamma scalda anche i molti diseredati.

Il mercato di Markale. Il 5 febbraio 1994 un attacco serbo provocò 68 vittime e 144 feriti
Ancora più avanti i palazzi liberty diventano grattacieli. Tra essi il palazzo del Parlamento. Ricordate quando venne incendiato? 

Il parlamento bosniaco 
E anche l'Holiday Inn: costruito per i giochi olimpici del 1984, durante gli anni del conflitto fu la sede dei giornalisti provenienti dall’estero, essendo l’unico hotel ancora in funzione. La facciata che da sul “viale dei cecchini”,  la Zmaja od Bosne  (dragone di Bosnia), fu gravemente danneggiata, ma dopo la guerra è stata restaurata, e oggi è un punto di riferimento nel panorama.

L'Holiday Inn
Per non morire, qui, avevano scritto una guida che si chiama Guida di sopravvivenza a Sarajevo.  Vorremmo andare a visitare il villaggio olimpico, ma non riusciamo a trovarlo: il Garmin fa i capricci e saliamo verso l'alto. In effetti, quando seguivo le imprese di Paoletta Magoni, che nel 1984 vinse l'oro nello slalom speciale alle olimpiadi di Sarajevo, mi ero immaginato che la città fosse una stazione sciistica come, che ne so, Innsbruck. Invece Sarajevo è come un catino, che ha il centro a 500 metri e i sobborghi a 900: salendo verso i 900 vedo che le piste sono lontane, lontanissime. E il bianco che, nonostante l'estate molto agli sgoccioli riempie alcuni giganteschi spazi verdi, non è altro che il marmo di cimiteri. Ce ne sono tantissimi, quasi tutti musulmani, diversi da quelli cristiani. Ricordano molto i cimiteri di guerra americani e in effetti cimiteri di guerra lo sono: prati verdi, lapidi bianche che si alzano da terra come delle stalagmiti, senza fiori o icone. E se ci passeggi dentro, scopri che le date sono tutte più o meno uguali. Eccolo, il genocidio.

Il bianco nel verde...
...
Ok. Lasciamo Sarajevo e Ci dirigiamo a Mostar. Il cielo è azzurro e sulla strada che ci porta fuori dalla città, la strada dei cecchini sulle quali vedevamo sfrecciare le vecchie golf per spostarsi da una parte all'altra, ci affianca un'auto con un ragazzo che ci chiede da dove veniamo. Lui ha vissuto 10 anni a Castelfranco, vicino a Pisa e ci tiene a dircelo. Buon viaggio, ci dice...
La strada è bellissima e servono più o meno tre ore per percorrerla tutta: è la E73, che dopo Konjic costeggia un bellissimo lago artificiale, il Jablanica, che si alimenta sul fiume Neretva, detto anche Narenta, che sfocia nell'Adriatico. Si tratta di un paesaggio da favola e la strada che lo attraversa è chiamata via  Metkovic.

La E73 costeggia la Neretva
Più verde l'acqua degli alberi...
Dai. Bada che verde...
La strada maestra è piena zeppa di pattuglie di polizia, con posti di blocco composti da decine di autoradio e quindi abbassiamo il tono del boxer: e poi, ad andare più piano si vede meglio il paesaggio, si trova il posto in cui fermarsi a fare qualche foto e potremmo anche approfittarne per una sosta gastronomica. Invece passiamo dritti a Pocitelj, evitando il castello, e mentre il cielo comincia a farsi scuro arriviamo finalmente a Mostar.
Il primo approccio con la città è con lo scheletro di un edificio distrutto, segno della feroce battaglia che infuriò per tutto il 1993: parcheggiamo a due passi dal borgo sulla riva destra del Narenta e un "volenterosissimo" parcheggiatore ci costringe a sistemare la mukka davanti a un pub, prende in custodia i nostri caschi e giubbotti e dopo aver percorso una vera e propria passeggiata per turisti, arriviamo allo Stari Most, il ponte vecchio, abbattuto il 9 novembre 1993, era stato costruito più o meno 5 secoli fa. A tirarlo giù, a dare addosso ai bosniaci, stavolta non furono i serbi ma i croati, che lo bombardarono per due giorni, finché non  riuscirono nell'intento. Ammazzarono centinaia di persone con le quali, fino a qualche mese prima, si trovavano a chiacchierare o a passeggiare insieme.  Anche a combattere insieme, contro il comune nemico serbo, ma quando - nel 1993 - la comunità internazionale premiò di fatto l'occupazione (e l'inerzia sull'assedio di Sarajevo ne è un esempio), i croati pensarono di essere nel giusto a volere la loro parte di Bosnia Erzegovina.
Comunque: questo è il ponte. Rifatto bene o male, giudicate voi. L'importante è che le due rive del Narenta siano di nuovo unite.

Lo Stari Most, ristrutturato

La riva sinistra, musulmana, e le acque verdi del Narenta

Gas on the bridge
Angela on the bridge...

Mostar
Dico la verità: quando sono arrivato avrei divorato un pollo da solo, ma dal cielo, sempre più nero cominciano a cadere gocce d'acqua grosse come uova, un inquietante vento caldo soffia dall'alto verso terra e i tuoni rompono il silenzio dei turisti. Così decidiamo di metterci le tute anti-pioggia e di partire alla volta di Spalato, dove il traghetto ci aspetta. Per venti minuti, più o meno, avanziamo in un torrente in piena che è la strada e solo un'ora e mezzo più tardi riusciamo a spogliarci un po', affamatissimi. In un piccolo caffè di Sovići, al confine con la Croazia, ci facciamo un dolce strepitoso, una specie di chees-kake con cioccolata e frutti di bosco, accompagnato da una birra ghiacciata alla quale faccio seguire una paglia. La ragazza che gestisce il locale, il Caffe BRu, non spiccica una parola d'inglese ma ci piace: la torta l'ha fatta lei!

Sosta al Caffe BRu
Le energie tornano e dopo aver lasciato il territorio bosniaco, sfrecciamo, letteralmente, verso la costa: vogliamo arrivare a Omiš, per fare un po' di costa prima di imbarcarci a Spalato. Sbagliamo strada un paio di volte, forse tre, ma alla fine, dopo aver valicato un paio di passi dei contrafforti dalmati, riusciamo a lasciare la 39 e imboccare la 70 e facciamo un'ultima sosta dalla terrazza naturale che poco prima di arrivare a Omiš guarda il Rijeka Cetina, un fiume che si getta in mare passando da una suggestiva gola.

Omiš
La bellissima Croazia che guarda il mare
La fortezza di Omiš
Beh. La vacanza è finita. Arriviamo a Split, Spalato, stanchi e affamati e dopo aver dribblato un esercito di affittacamere, che vogliono farci dormire a tutti i costi, ci mangiamo un bel panuozzo all'ingresso del porto, dove un'oretta più tardi conosceremo lo schifo di una nave italianissima, la Aurora della Tirrenia, alla volta di Ancona.
Mentre la mukka riposa nel ventre della carretta, noi facciamo un po' di chiacchiere con una coppia di Denver, reduci da una vacanza in barca a vela dalla Grecia, e poi proveremo a farci una doccia ed a riposare.
Mentre sfumacchio l'ultima, Spalato ci lascia l'ultimo ricordo di se.




Lorenzo Borselli © Tutti i diritti riservati

1 commento:

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