giovedì 23 febbraio 2017

TEMPANOS V

“...ma l’impresa eccezionale, è essere normali...
Lucio Dalla - “Disperato, erotico, stomp” - 1977

19 febbraio 2017 - Aragon
Se avessi tanta immaginazione, a quest’ora non sarei qui. Sarei nella cabina di un traghetto, in un punto qualsiasi del mar Ligure, tra Barcellona e Civitavecchia, a scrivere il diario di uno di quei giri invernali che una volta facevamo in gruppo e che ora potrei fare solo “da solo”.
Penserei all’emozione che normalmente avrei avuto nel fare come sempre tardi, nel preparare i bagagli, nel mettere a posto le cose nelle borse laterali, nel comprare i regali agli amici che impazienti aspettano. Così, tanto per fare, improvviso un racconto.
(avvertenza: le foto che seguono sono finte, perché questa è una storia di pura fantasia)
È tardi, cazzo, tardissimo”.
Era già vestito da moto, con doppia calzamaglia superpippo (ricordate Superpippo?), quando si accorse che non aveva con sé le chiavi per chiuderle, quelle borse. Non aveva il cavo per ricaricare l’auricolare del casco, non aveva i documenti della moto.
Così tornò in ufficio, già pronto per partire, già in ritardo come sempre, e le due canaglie che lavoravano con lui, Daniele e Pasquale, si lasciarono andare a una risata sarcastica, quasi di compassione.
Dove aveva la testa?
Nel casco.
Un attimo dopo, coi tappi ben calzati nelle orecchie, il boxer ruggiva lungo l’A11, in direzione Genova.
Anzi no, Savona, perché al mercoledì i traghetti da Genova per Barcellona, non ci sono.
E il ruggito di quella bestia, lasciata in garage troppo tempo, finì col risvegliargli tutti gli istinti sopiti dell’anno passato incollato a quella tastiera, preso com’era dal lavoro e dalle beghe della vita.
Perché quando si invecchia, la vita comincia a mandarti il conto, che è ogni giorno più salato.
E anche se le disgrazie piovono più che altro a chi ti sta vicino, un po’ di quel conto devi pagarlo per forza anche tu, perché, come quando sei a tavola, è giusto spartire.
Spartire, partire.
Ecco Savona: il navigatore, infernale ammennicolo della supertecnologica mukka, gli disse che doveva uscire a Vado. Seguì le indicazioni e arrivò al porto già in riserva, segno che per strada non aveva risparmiato molto, segno che con molta probabilità, il postino avrebbe messo nella sua cassetta un’altra busta verde.
Il porto però era deserto: la nave doveva partire alle 23, ma lì non c’era nessuno, a parte due traghetti gialli della Corsica Ferries deserti.
Era il porto sbagliato: da Vado Ligure non partono le navi per la Spagna. Il sudore gli imperlava quel po’ di fronte libera che il passamontagna termico gli aveva lasciato e la visiera si appannò.
Le 22:10.
Coprì la distanza di 5 chilometri tra Vado e Savona in una decina di minuti, interrotti da un migliaio di semafori rossi, cercando di fare il minor casino possibile con quel motore che gli scalpitava tra le gambe, approfittando del suo istinto, spesso traditore, dei possibili radar nascosti o delle possibili imboscate delle guardie.
Stasera era il ladro, ma un ladro gentiluomo: non rubava, semmai recuperava. Tempo.
Quando arrivò al terminal dei traghetti, la strada era letteralmente assiepata di autotreni. Gli sembrava di essere uno di quei ciclisti del Giro o del Tour, quando stanno per arrivare al gran premio della montagna, che quasi non vedono la strada da quanta gente che c’è attorno a loro, ad applaudire. Per ogni metro che fanno, la calca si apre magicamente, come quando i predatori attaccano i branchi di sardine. Differenza evidente con il suo caso: davanti a lui nessuno si spostava. Gli autotreni erano inermi, silenti. Nessuno applaudiva, nessuno sembrava considerarlo.
Ma poi, davanti al varco doganale, un giovane imbacuccato per il freddo agitò una torcia attirando la sua attenzione.
Capì che la strada era quella.
Buonasera signor Borselli, ha un documento?
Lo sguardo interrogativo di Borselli ebbe subito risposta. “Lei è l’ultimo, ma è fortunato. La nave è in ritardo. Segua i miei colleghi e faccia attenzione alle rotaie del treno. In moto può essere pericoloso”.
Lo ringraziò, ma l’avrebbe incenerito con gli occhi, se avesse avuto quel potere.
Attento a chi? A lui?
Infatti, un attimo dopo, la ruota anteriore si infilò nell’incavo tra rotaia e asfalto. Il piede sinistro andò subito a terra, mentre la ruota posteriore provò a seguire la sua padrona, ma la rotaia era troppo stretta per lei. Questo salvò l’onore del pilota, che d’istinto ruotò il manubrio sullo scambio, restituendo una base d’appoggio alla gomma, facendogli recuperare la libertà.
Altro sudore, altra crisi vasovagale. Gli sfinteri ressero per un pelo.
La sua era l’unica moto e questo fu la prima gratificazione della serata.
Lo avevano scortato in testa alla coda in attesa e così, analizzando gli sguardi di tutti, ebbe l’impressione che lo invidiassero.
Tolse il casco, indossò il berretto del vecchio Anakin Skywalker, formalizzò il check-in e poi fece fuoco sulla sigaretta.

Don't underestimate the power of the Dark Side
Il Millennium Falcon al porto di Mos Eisley, sul pianeta Tatooine (ma quanto sono fava???)
Fa male il fumo, pensò.  Ma accendersi una paglia dopo un arrivo del genere, per lui non aveva  prezzo.
Pagò cara la sua arroganza, perché gli fecero mettere la moto nel garage più basso, una decina di metri sotto la linea di pescaggio. 
Primo a entrare, ultimo a uscire.
Ma non se ne curò. Telefonò ad Angela, si fece due risate, e provò a dormire in una ghiacciaia con vista mare, sul ponte di prua, proprio sotto la torre di comando.
Non fece la doccia, perché quel traghetto faceva schifo. Provò a lamentarsi con l’addetto alla reception, ma quello pensava solo a chattare, almeno finché c'era linea, e alzò annoiato lo sguardo per dire che non poteva farci niente.
Come dire: estigrancazzi.
Normalmente il suo sguardo avrebbe cambiato luce e la camera gliel’avrebbero sistemata. Ma era troppo stanco. Si lasciò addosso la superpippo e dormì, mandando a quel paese lo speaker che, alle 8 del mattino, annunciò, in un inglese vergognoso, l’esercitazione di routine.
Captein tu criù, captein tu criù! AbBàndon té scipp, abBàndon té scipp...” (*)
Pensò come sarebbe stato simpatico avere un microfono e rispondergli per le rime…
Facchiù... (**)
Il ritardo di tre ore con cui la nave arrivò all’ormeggio, il giovedì sera, gli fece aumentare la fame e mentre guardava la banchina avvicinarsi, dal ponte di coperta, gli venne in mente che aveva lasciato i documenti della moto in ufficio.
Libretto e assicurazione.

Alla rada davanti a Barcellona. Colors.
Stoppò l’ansia e il sudore e scese nel garage 3. Respirò gas di scarico per scontare chissà quale penitenza e un attimo dopo era su una delle gran vìas del capoluogo catalano, scintillante di modernità e del modernismo di Gaudì.
Parcheggiò davanti al SunotelCentral, un 4 stelle perfetto per trovare un po’ di confort e di relax dopo la squallida cabina del traghetto. Rimase sotto la doccia per un’ora e dopo essersi fatto stampare, alla reception, la copia del documenti, uscì per mangiare un boccone.
Entrò in un ristorantino all’angolo della Gran Via, La Catedra, e si sedette in un tavolo defilato, in mezzo a un gruppo di tifosi che guardavano una partita imprecando. Villarèal Roma: 0-1.
Ordinò una Paella con Marisco e una birra, tirando fuori il meglio di sé con lo spagnolo che aveva imparato in quelle peregrinazioni nella terra di Don Chisciotte ed ebbe un moto d’orgoglio quando il cameriere, vedendo che la carta di credito era italiana, gli fece notare, da italiano qual era anche lui, che la sua pronuncia era perfetta.

Paella de marisco. Sullo sfondo, Cerveza
Dormì contento di questo. E contento anche di non essersi fatto riconoscere dagli ultras del Villaréal, che aveva preso nel frattempo altre tre pappine dalla “Maggica”.
Il viaggio del giorno dopo prevedeva una lunga e dritta trasferta fino a Palencia, in Castilla Y Leon, dove il gruppo dei suoi amici lo attendeva per una gitarella fuori porta fissata per sabato.
Sarcasticamente, invidiò tutti los cabrònes del Lado Oscuro: li invidiò, perché avevano lui per amico, disposto a farsi 1.607 km per fare una scampagnata fuori porta.
Rifornì a Sobradiel, sulla AP68, sopravvivendo a più di duecento chilometri di nebbia fittissima e di gelo che sparirono poco dopo Zaragoza, quando l’autostrada incontra la N122. Percorse agilmente i 55 chilometri che costeggiano il gigantesco panettone del Moncayo, innevato fino a metà delle sue pendici, superò l’abitato di Tarazona e cominciò finalmente a sentire il calore dei raggi del sole, lasciatasi la bruma alle spalle.

Sierra del Moncayo (wikipedia), 2.373 metri
La mesa che conduce fino in Castiglia è tutta oltre gli 800 metri: torrida d’estate e rigida d’inverno. Ma il tepore di quella giornata gli asciugò le ossa.
Ad Ágreda proseguì, valicò i 1.160 metri del Puerto del Madero e puntò verso Soria, fermandosi, come sempre faceva, all’Hotel Cardosa, alle porte di Soria, km 146 della N122.
Si sedette a un tavolo affamatissimo, ordinò una moltitudine di tortillas y chorizos, sorseggiò una birretta e attese che la cameriera gli servisse il piatto a tavola.
In quei momenti avvertiva sempre un grande imbarazzo. Gli sembrava di essere un fuggitivo.
Del resto, che poteva farci un motociclista italiano, in mezzo al parco nazionale della Dehesa del Moncayo? Pensava a questo quando affondò la forchetta nella succulenta tortilla al prosciutto e formaggio. Pensava al viaggio che stava facendo e pensava a quanto la solitudine del casco potesse fargli affiorare i pensieri che normalmente non aveva tempo di analizzare.
Riprese il cammino e proseguì sulla N122 fino ad Aranda De Duero, dove solitamente avrebbe tenuto fermo il timone verso Valladolid e i suoi Pinguinos o i Motauros, ma stavolta no.
Stavolta la meta era Palencia, dove l’attendeva un piccolo gruppo di dueruote, lì convenute da tutta la Spagna per un raduno “Los Tempanos V”, nato da poco per iniziativa del miol amico Chupy.
I Tempanos sono le stalattiti di ghiaccio e quelle che stavano aspettando l’arrivo di Gas, una cinquantina, avevano tutte un distintivo tatuato sulla pelle e uno ricamato sulla giacca, tenuto vicino all’emblema mondiale dell’IPA, una specie di NATO mondiale che tiene uniti tutti gli sceriffi del pianeta.
Si, dai gli sbirri.
Gas rappresentava la XX delegazione Ipa della Valle d'Aosta, dalla quale gli era arrivata, alla vigilia della partenza, una stupenda grolla, in puro noce e intagliata a mano.
Ad Aranda deviò sulla CL619 e ci rimase per 80 chilometri, finendo dritto nel cuore di Palencia, la città che ha un Cristo, el Cristo del Otero, con le braccia aperte che la protegge dall’alto di un cerro (in spagnolo, collina) e una chiesa romanica struggente, chiamata la Bella Desconocida.
Pochi la conoscono, ma quando la vedono scoprono una meraviglia.
L’Hotel Alda, dove si sarebbe fermato due notti, è in pieno centro ed è un’accogliente foresteria alla quale non manca nulla.
Scaricò la moto di fretta, perché voleva comprarsi una maglia termica – la sua era rimasta da qualche parte, a casa – e un copricapo che sostituisse quello al quale, lungo la strada, si era strappata la lampo.
Decathlon Palencia lo aspettava e provò un insano e colpevolissimo piacere, nel comprare un piumino in super offerta a 24 euro.
Quando arrivò Chupy, l’abbraccio tra i due fece fermare per un attimo il traffico della piccola cittadina castigliana.
Un anno dopo, il gruppo si stava ricomponendo.
Aiutò l’amico ad apparecchiare i tavoli in un ristorante, dove avrebbero cenato, e poi insieme passeggiarono fino alla Plaza Mayor, dove sorseggiò un’Alhambra gelata facendo conoscenza con quelli che non aveva mai visto e dove abbracciò quelli che già conosceva.
Ritrovò prima Josè e Anna e poi Paco e Miguel.

Nell'ordine: Pedro, Lorenzo, Paco, Miguel, Josè e Chupy
Il Lato Oscuro stava per riprendere nuovamente il sopravvento, a parte due hermanos che non sarebbero venuti.
Sedette con loro, parlò, e bevve anche un Gin Tonic, forse il primo della sua vita.
Buonissimo, ma fatale: il calore che gli trasmise l’alcol fece calare la stanchezza dei 750 chilometri percorsi da Barcellona fino a quell’avamposto castigliano e così chiese e ottenne il permesso di ritirarsi.
Russò profondamente, nonostante il bisturi gli avesse di recente riaperto i turbinati, devastati da anni di incidenti, cazzotti e dalla nafazolina che usava per tenere le mucose aperte.
Russò e sognò Rio de Janeiro, forse per colpa di quella statuetta del Cristo di Palencia che gli avevano consegnato quale Tempano màs Lejeno.
L’aveva stravinta, quella statuetta.
Era l’oscar dell’avventura e in qualche modo se l’era guadagnato, arrivando a destinazione senza la compagnia del fratellino che “Oscar” faceva di nome per davvero e che per il secondo anno era rimasto a casa.
Il giorno dopo, svegliatosi presto, visitò col Chupy il comando della Polizia Locale di Palencia, dove la concentrazione dei Tempanos sarebbe cominciata, e poi, tutte insieme, le 53 moto – tra cui tre scooter – presero la N611 in direzione di Aguilar de Campo, alle porte del paco nazionale “Fuentes Carrionas y Fuente Cobre”.
Qui, dopo due anni di lontananza, ebbe l'occasione di rincontrare anche Joseburg, uno dei fondatori del Lado Oscuro della primissima ora...

Il gruppo IPA davanti al quartier generale della polizia di Palencia
Visita alla centrale operativa
Il tempo di un chupito e poi, sotto una pioggia scrosciante e freddissima, presero la ruta de Los Pantanos, la P210, che inerpicandosi sulle pendici innevate di monti che gli richiamavano la verde Irlanda, tra mucche e somari allo stato brado, passarono attorno ai laghi artificiali (i Pantanos appunto) fino alla meta del giorno, un borgo di case chiamato Camporredondo de Alba, dove, attardandosi nel mangiare cose squisite, tipo paella di terra, spezzatino di calamari e patate e una grigliata poderosa, di carne e stinchi, li colse una tormenta di neve.
Non si peritò della circostanza.
Almeno l’antiacqua non l’aveva dimenticata e così perse perfino tempo a discutere, con Josè, della bontà della bevanda appena scoperta: tinto y gazeosa. Incredibile.

Il gruppo ad Aguilar de Campo
Tuta antipioggia al via
El restaurante y la neve


Appena arrivato in camera, dopo una doccia caldissima, venne recuperato dal Chupy e proprio mentre stavano passeggiando, tra la plaza Mayor e il ristorante dove avrebbero cenato tutti insieme, ritrovò Paco e Blanca e di nuovo giù abbracci e racconti dell’anno appena passato.
Non aveva ritrovato due caballeros, forse sopraffatti dal Lado Triste e di questo si rammaricò, soprattutto l’indomani, quando si alzò presto per rimettersi in cammino.
Fece colazione con "Lobo", uno sbirro di Vittoria, e poi ripartì.
Non era finita, perché il lungo “camino” del giorno prevedeva un altro incontro importante: Julian. Sotto il sole iberico ripercorse al contrario la strada fino a Soria, dove si rifocillò in un bar del centro, e dove fece appena in tempo a scansare una trappola della Guardia Civil, dopo aver preso un radar. Lo aveva avvertito del flash un ragazzo in auto, che lo raggiunse e gli disse di cambiare strada, perché più avanti c’era il blocco.
Così fece: deviò sulla N234 verso Catalayud e in breve si lasciò alle spalle le alture del Moncayo, tornando a temperature più miti. Percorse un pezzo di A2 verso Zaragoza e poi prese per Cariñena mediante la A220, mantenendola in direzione di Belchite.
Stava percorrendo la Ruta de Goya ma anche stavolta non ebbe il tempo di fermarsi a Fuentetodos per visitarne la casa natale.

Ruta de Goya
Ruta de Goya, poco prima di Belchite
A Belchite, fu zuppa di ceci e costole d’agnello, in un localino, La Lomaza, della città nuova e fu anche l’occasione per ribadire a sé stesso quanto l’ignoranza imperi.
Infatti, quando chiese, cartina alla mano, come fosse la strada di Andorra – la cittadina, non il principato, molto più a nord – per raggiungere la costa, ebbe indietro lo sguardo compassionevole che si riserva agli idioti. Lo comprese e si accese una sigaretta, pensando che avrebbe semplicemente fatto da solo, come sempre.

Una zuppa di ceci meravigliosa...
Evitò comunque Andorra, perché cominciava a farsi tardi, e ad Alcaniz prese la vecchia N420, già fatta un’infinità di volte lasciando la Catalogna verso la Castilla Y Leon: ora era in Aragona e pensò che non sarebbe stato male provare a visitare l’autodromo di Aragon, ovviamente chiuso. Fotografò il muro e proseguì verso Gandesa dove arrivò dopo la foto di rito al Meridiano Zero e poi, dopo aver dovuto rinunciare ai dolcetti della pasticceria Federico, chiusa per turno domenicale, arrivò finalmente a Tortosa.

I peli sull'obiettivo...
Come la copertina. Sullo sfondo, il muro di Aragon
Foto di rito al Meridiano Zero, quello di Greenwich
La città gli sembrò viva più che mai. Stavolta aveva il tempo di girarla un po’ e anche la chiusura del ponte storico, che gli avrebbe permesso di arrivare a casa di Julian senza fare troppa strada, gli permise di osservare la vita dell’ultimo paese che il lungo letto dell’Ebro tagliava in due prima di gettarsi in mare, nell’immenso delta.
Arrivò, mise la mukka sul cavalletto centrale e mentre cercava il numero di Julian, i suoi pensieri furono interrotti da due ragazzini incravattati appena diciottenni, di una qualche missione cristiana. Uno veniva dall’Idaho, l’altro dall’Arizona.
Il loro spagnolo stentato convinse Gas a spiegargli che avrebbero potuto esprimersi in inglese, rompendo ghiaccio e imbarazzo. Certo, la fede in lui mancava da tempo, ma la loro tranquilla accettazione della sua condizione di esule, anche di Cristo, lo indussero ad approfondire. Parlarono di cibo, di viaggi, di moto e delle loro case lontane. “Mormoni”, dissero. “Siamo mormoni e stiamo facendo un college in giro per l’Europa”.
Strana la religione”, pensò: da una parte del mondo i ragazzini di quell’età indossano cinture esplosive o imbracciano mitra per ammazzare l’infedele; dall’altra ci parlano, con l’infedele. Non insistono nei tentativi di convincere o di convertire. “È stato bello parlare con te”, gli disse uno, quello più vispo, un biondino con gli occhi celesti. Gli diede un biglietto da visita e insieme al suo confratello sparì dietro l’angolo, entrando in un dedalo di palazzi abitati soprattutto da arabi e pachistani.
Spedì un messaggio a Julian, che ancora non era tornato, e poi telefonò ad Angela.
Non gli parve il vero di sentire la sua voce, prima di quella dei bambini, che gli raccontarono la giornata di divertimento sulla neve, rovinata solo dalla sua assenza. Non c’era niente da cui scappare, semmai c’era qualcosa verso il quale tornare.
Julian annunciò il suo arrivo clacsonando da dentro un Hummer rosso maranza, parcheggiò sulla soglia del basculante condominiale e saltò addosso a Gas come fanno i bambini col babbo o col fratello maggiore. “Fratello maggiore è meglio”, pensò Lorenzo: 39 anni da compiere contro 46 compiuti non rappresentano paternità. Fratellanza, semmai.

Foto en garaje...
Aperitivo in famiglia Gaton
Juli scattò la foto di rito nel garage e poi aiutò l’amico peregrino a portare le borse in casa.
La casa.
Quella di Julian è belissima, ma senza Julian Junior e Ferran è desolata.
Mancano anche Miriam e Brunito, il perro che 6 anni prima si era ripetutamente accoppiato con la gamba di Lorenzo, la stessa che accarezzò il sedere con la coda mozza per fargli capire di non essere interessato a una relazione sentimentale.
Miriam non c’è da un pezzo, i bimbi sono con lei, e Bruno semplicemente non c’è più.
Parlarono, fumarono insieme e poi, dopo una doccia, raggiunsero i genitori di Julian, in un bar sulla riva sinistra del fiume.

Jamon y tinto chez Manolito
Fu il preludio di una serata tranquilla, senza guardare le lancette dell’orologio.
Una serata normale, diversa da quelle che avevano sempre caratterizzato gli incontri di Tortosa, quando Lorenzo e Oscar, normalmente, arrivavano di corsa dopo essere sbarcati, diretti l’indomani verso i Pinguini.
Seguì un gigantesco piatto di Jamòn da Manolito, accompagnato dal vino tinto del posto, e qui non mancò l’occasione di far la conoscenza con altri due sbirri nazionali.
Gli spagnoli non hanno mai fretta: fanno colazione con calma, parlano del più e del meno, vanno un po’ in ufficio e poi s’incontrano per strada o nei bar.
Parlarono moltissimo e poi iniziarono i preparativi di Gas per raggiungere Barcellona, conclusisi come sempre davanti all'ufficio di Julian, sulla main street della città, per la foto di rito.

Mitica foto...
Julian promise per l’ennesima volta di raggiungerlo a Firenze, di dargli l’occasione di ricambiare tanta ospitalità e poi, così com’era arrivato, Lorenzo se ne andò.
La strada verso Barcellona merita la via interna: la C12 fino a Mora costeggia l’Ebro, dal suo letto profondo, su rive lussureggianti che si alternano tra impervie e ordinate, come solo i vigneti tra le rocce possono essere. Da Mora a Reus, invece, la ruta comincia a curveggiare in sinuose e lunghe paraboliche, mostrando una volta in alto, la spianata di Tarragona.
Ma poco prima di Reus, l’amante delle pieghe deve svoltare a sinistra e sbizzarrirsi per gli imbarazzanti 38 chilometri che separano Les Borges del Camp fino a Ulldemolins, dove inizia il vero luna park dell’itinerario.

Ruta TV7004
La strada TV7004 verso Montblanc gli sembrò incredibile, così tanto che a metà strada tornò indietro per puro divertimento. L’impaccio delle valigie laterali, la goffaggine della borsa serbatoio, la difficoltà del guanto invernale nel pizzicare il freno non impedirono all’adrenalina di risalire verso il cervello, quel poco che gli restava, e solo quando pensò che se fosse caduto lì lo avrebbero ritrovato putrefatto, si rialzò sul busto e riposizionò la centralina su road, dopo lo strappo in dyna.

Mukka al paskolo, sotto la Sagrada Familla
Fece appena in tempo a mangiarsi una gustosa pizza diavola alla Reina Margherita di Barceloneta, una volta presi i souvenir di rito per i bambini, e ad imbarcarsi.
È tardi, cazzo, tardissimo”.
Al porto non c’era più nessuno, erano già tutti dentro.
Così come all’andata, riuscì a far tardi anche al ritorno, tanto che avvertì chiaramente gli improperi che gli arrivavano dagli addetti all’imbarco. Mentre faceva la doccia, stavolta non poteva fare altrimenti, sentì vibrare il pavimento di plastica sotto i piedi.
La nave era partita.

Adeu...
Russò profondamente, nonostante il bisturi gli avesse di recente riaperto i turbinati, devastati da anni di incidenti, cazzotti e dalla nafazolina che usava per tenere le mucose aperte.
Russò e sognò di essere libero. Forse per colpa di quella statuetta del Cristo di Palencia che gli avevano consegnato quale Tempano màs Lejeno.
Aveva stravinto quella statuetta. Era l’Oscar della libertà e comprese ancora una volta che poteva rifarlo in ogni momento.
Per quello preferiva tornare a casa.
Da Angela, da Filo e Bianca, dalla zia, dal babbo e anche da Paolo, fratellino dal muso lungo e dalla battuta pronta.
L’impresa eccezionale fu quella di averlo capito ancora una volta. Era tutto normale.

L'ho già detto. Il ritorno è solo un pensiero...
(*) spero comprendiate che si tratta di ironia
(**) spero comprendiate che si tratta di ironia (2)

Lorenzo Borselli 2017 © Tutti i diritti riservati


10 commenti:

  1. Facchiùùù!!!!!!!!!!*

    * spero comprendiate che è solo invidia

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  2. Fantastico articolo Lorenzo! E complimentoni per il blog =)

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    1. ciao Lorenzo!

      Non ci conosciamo ma ho avuto il piacere di leggere qualche tuo articolo.

      Complimenti ancora!

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  3. Non so se mi piacciono di più i posti che hai visitato e di cui i miei figli parlano spesso oppure le parole che usi per descrivere il tuo viaggio. Una cosa però la so! La prossima volta vengo anch'io con te! Ciao fratellino

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  4. Se avessimo tanta immaginazione.. a quest'ora non saremmo qui.. saremmo tutti a far parte di una meravigliosa storia di pura fantasia.. saremmo nascosti dentro alle borse laterali della mucca, scrutando l'orizzonte di tanto in tanto, cullati dalle dolci curve. Penseremmo che è magnifico godere delle pulsazioni del boxer, di tutti i profumi e dei sapori che offre il paesaggio.. penseremmo che sono davvero belle le vibrazioni delle amicizie che scaldano il cuore, e saremmo in pace col mondo..
    Un'altra bellissima storia di pura fantasia la tua, Lorenzo, un altro bellissimo viaggio il "nostro"..
    Come al solito ci porti in luoghi meravigliosi.. che spesso non conoscevamo..

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Dì pure quello che vuoi. Pensa, quello che vuoi. Solo, non essere offensivo...